I cantastorie.
In questi giorni ho ripresa un’abitudine che avevo quasi dimenticata, guidando ho iniziato a riascoltare alcuni libri spinto soprattutto dal sapere che farlo mi quieta.
Percorrendo un discreto numero di chilometri e relative ore ogni giorno.
Con il primo tratto sempre sufficientemente „lungo“ visto che per raggiungere una delle mie due provincie ho almeno 70 80 chilometri da percorrere.
Ed ultimamente su quelli che dovrebbero essere tratti veloci ho trovati diversi mezzi pesanti con annessi continui rallentamenti.
Ho scelto, ho preferito assolutamente, ascoltare dei libri che mi raccontassero le storie e vicende di una famiglia o di fratelli.
Facendomi consigliare da mia moglie che li ha tutti letti prima di me.
Fra quei nomi inusuali, fra quelle vicende, fra quell’elenco di vie e paesi, mi sono tornati in mente alcune gite fatte, alcune domeniche passate in un paese non così distante, una fiera paesana e da lì mi è tornata alla mente una figura che avevo dimenticata.
I cantastorie, ero „piccolo“, forse 5 o 6 anni se la memoria non mi tradisce.
Quasi sicuro che il paese fosse San Benedetto Po e certo di esserci andato con mio zio Roberto sua moglie ed i miei genitori, sotto uno dei portici eravamo in fila a guardare bancarelle e venditori di vario genere, nella piazza antistante dal cassone di un furgoncino sentivamo parlare, urlare, cantare.
Spinto dalla curiosità ho accelerato il passo stringendo forte la mano dello zio sollecitandolo, volevo andare a guardare subito chi o cosa fosse, davanti c’erano tante persone, giovani vecchi bambini, con varie altezze e vestiario, alcuni con il cappello della domenica che per un bambino sembrava tanto alto e fastidioso.
I cantastorie, chiedendo permesso.
Spintonando come mai avevo fatto ne avrei pensato di poter fare.
Mi sono fatto avanti fra un per favore e una piccola spinta.
Ricordo un mio fervore quasi da maleducato, che avrebbe potuto farmi ricevere un rimbrotto da mio padre se mi avesse visto.
Ma quello strano entusiasmo mi spinse a comportarmi come non era mia abitudine.
Dopo quei tanti moniti ricevuti dalla zio, dai Filippo non essere irruento, sii educato, non si spinge, non è da te, a cinque anni non era da me 😉 alle volte 😉 .
Arrivati praticamente davanti, sotto quel furgone rosso quasi arancione dopo le tante giornate sotto il sole.
Un uomo non alto e magro, vicino a lui una signora con uno strano cappello che sberluccicava.
In quel poco spazio una serie di strumenti, molti li ho percepiti come una accozzaglia di altri.
Vidi un barattolo del caffè Lavazza di latta incollato con il bidone a cilindro in cartone di un certo detersivo.
I cantastorie, Lui cantando, urlando, raccontando.
Lei presa da una certa foga andava avanti ed indietro con un elemosiniere, ne avevo visti altre volte ma sempre in una chiesa.
Un bastone di legno con sul fondo una sacchetta nera, spesso toccava qualche spalla con un movimenti fra il voluto e l’occasionale.
Convinto da chissà cosa presi la mano dello zio e quasi lo obbligai ad inserirci una moneta, non con tanta voglia lui lo fece, mi accontentava sempre.
Poco distante da noi c’erano la zia ed i miei genitori, non vicinissimi a quel capannello di poche persone ancora ferme davanti al furgone scolorito.
Usciti anche noi due dal gruppo e raggiunti gli altri ci siamo incamminati verso il bar adiacente, seduti i due uomini iniziarono a ricordare e raccontarsi dei loro cantastorie, dove li avessero visti ed ascoltati, con chi.
Noi tre li ascoltavamo, io più concentrato su quel dolce alla crema che la paffuta signora del bar mi aveva appena portato, oramai mi ero perso a fissare le vetrine di due negozi lì attaccati.
Questa è stata l’ultima volta che vidi un cantastorie, poche le volte precedenti in effetti e ne ho un ricordo più raccontato che davvero mio.